giovedì 24 marzo 2016

L'uomo e la macchina

In cui teorizzo la differenza tra cura e prevenzione utilizzando argute metafore nautiche.

Ci pensavo un paio di domeniche fa, mentre viaggiavo in macchina verso Fiumicino e un pranzo in barca di amici. Pensavo, specificamente: "Tra poco qualcuno potrebbe chiedermi qualcosa dello shiatsu, e io dovrò imbastire una risposta al tempo corretta e fantasiosa". Penso molto, quando sono in macchina.
E così, per onorare l'ambiente, mi son ritrovato a costruire una metafora adatta a una barca a vela.

Dovete sapere, a questo punto della storia, che la barca a vela ha in realtà un motore, e che questo motore è di fatto l'incubo di ogni velista che si rispetti. Infatti esso serve come ausilio in situazioni particolari, di solito assai delicate: non dovrebbero esserci dubbi sul suo funzionamento in tali circostanze. Ma il condizionale è d'obbligo.
La faccio breve e passo subito alla metafora, ché dicono che i post troppo lunghi non li legge nessuno.

La metafora nautica

Nessuno andrebbe in giro con il motore rotto, su questo non ci piove. A volte, però, il motore comincia improvvisamente a fare un rumorino strano... "Sarà la cinghia? Un cuscinetto?" O forse addirittura la famigerata "Distribuzione"? Comunque sia in un primo momento ci allarmiamo, poi, dopo un po', se non succede niente, ci facciamo l'orecchio. Se anche dovesse peggiorare, purché poco per volta, quasi impercettibilmente, non ci colpisce più come prima. "Funziona lo stesso, del resto è vecchio, mica può essere perfetto".
I più pratici di noi sanno bene che con ogni probabilità quel rumore è sintomo di qualcosa che si sta usurando più velocemente del dovuto e che, una volta usurato, ci lascerà improvvisamente e, statisticamente, nel momento peggiore tra quelli ipotizzabili. Quelli di noi che hanno davanti una navigazione impegnativa faranno dei controlli, impiegheranno più attenzione. Ma non è che sia particolarmente più simpatico ritrovarsi a sorpresa con il motore rotto davanti al porto di casa piuttosto che a 1000 miglia di distanza. Ed essere abbastanza vicini alla costa per poter telefonare a un amico implica anche che abbiamo meno tempo per risolvere il problema prima che vento e onde ci portino sugli scogli. Ma sto andando fuori tema.

Quello che intendo scrivere è che ci abituiamo ai difetti della macchina e non ci facciamo più caso. La marcia che "gratta", l'alternatore che carica poco, la spia della temperatura che è un po' sopra la normalità. Il motore gira lo stesso, ci porta ugualmente dove vogliamo e quindi va bene. Accettiamo il compromesso insito nella situazione, ovvero che prima o poi dovremo intervenire, e più aspettiamo più sarà complicato, costoso e, a volte, pericoloso.

Nella nautica, il buon armatore, lo skipper responsabile, l'esperto velista, seguono un programma di manutenzione. Ogni stagione si cambia l'olio (magari è ancora buono, ma perché aspettare che non vada più bene e abbia già fatto danno?), ogni anno la girante (un pezzo della pompa dell'acqua che se si rompe ti lascia a piedi), le cinghie, i filtri del gasolio. Si regolano le punterie, si pulisce il circuito di raffreddamento, si controllano le spazzole di alternatore e motorino di avviamento. Tutte cose apparentemente inutili nell'immediato, ma che allontanano il fatidico momento in cui dovremo affrontare una spiacevole situazione.
Avrete sicuramente intuito dove voglio andare a parare: veniamo finalmente al nostro corpo.

Il nostro corpo

Ci svegliamo una mattina con un dolorino al collo. Avvertiamo fastidio, ma non abbiamo tempo per occuparcene. Passano i giorni, e la maggior parte delle volte il dolore va via come è venuto. O forse rimane, ma non è certo invalidante, per cui non ci facciamo più caso. Certo, verso destra non possiamo più voltare la testa come prima, e per ovviare a questo siamo costretti a ruotare tutto il corpo con un movimento innaturale, ma dopo tutto le funzioni vitali principali - lavorare e pagare le bollette - sono ancora sufficientemente attive: siamo ufficialmente sani. Passano i giorni, i mesi. E i movimenti si adattano a sfuggire al dolore, a proteggerci, mentre una parte del corpo pian piano si irrigidisce e il dolore migra lungo le catene muscolari.
Decidiamo di intervenire solo quando la macchina che trasporta ogni giorno la nostra autocoscienza, il nostro corpo materiale - l'unico che abbiamo, fino a prova contraria - si inceppa definitivamente e non ci permette più di andare avanti. Il dolore a quel punto si è istallato in profondità, i muscoli contratti sono molteplici, i movimenti sbagliati hanno sconvolto senza che nemmeno ce ne rendessimo conto le nostre abitudini, il nostro linguaggio non verbale, la nostra indole. E quello che era un piccolo problema si è trasformato in un qualcosa che nessuno sa bene come affrontare.

L'arguzia finale

A questo punto dovrebbe esserci il rullo di tamburi e dovrebbero entrare in gioco lo Shiatsu e il Sotai, e dovrei forse descrivere come queste arti "magiche" possano risolvere tutto, e subito. In realtà più una disfunzione è radicata e più sarà lungo e complicato il recupero, e questo vale per qualsiasi metodo uno voglia adottare, compresi quelli che io conosco.
Lo scopo di questo lunghissimo discorso è, diversamente, affermare che lo Shiatsu e il Sotai andrebbero utilizzati prima dell'ultimo stadio, anzi addirittura prima che sopraggiunga il minimo dolore, come fossero il programma di manutenzione che ogni bravo skipper segue stagione dopo stagione.

Perché, come dice il saggio, nessuno sarebbe così stolto da iniziare a scavare il pozzo quando ormai ha sete.

domenica 13 marzo 2016

Il ricevente: chi è costui

Dove discuto del perché uno dovrebbe mai scegliere di ricevere shiatsu. Ma non me la tiro.


C'è chi un sintomo non ce l'ha, o almeno non viene con uno scopo preciso. "Voglio rilassarmi" la richiesta più comune. "Sono curioso", a volte. In quel caso è il suo corpo a indirizzare il trattamento. Il corpo lo sa, qual è lo scopo per cui è qui.
C'è chi invece il sintomo ce l'ha. Anzi, secondo una statistica fatta tra alcuni colleghi, validi quanto e certo più di me, chi ha un sintomo concreto sceglie preferibilmente e senza alcun motivo valido il sottoscritto. Tipo: mi fa male una spalla. Oddìo che male alla schiena. Ommadònna non riesco a girare il collo. In effetti la colonna vertebrale non è mai messa bene, ahimé, al giorno d'oggi, e squilibri presenti da quei pizzi tendono a viaggiare verso, o dalle, articolazioni fino a trasformarsi, amplificarsi, a volte a mimetizzarsi.
Un sintomo può essere anche, che so, la stanchezza, o la digestione pesante. "Me puzzano l'ascelle: che ce poi fa' quarcosa?" Sine, faccio io. A patto che te sei prima lavato, però (perché lo shiatsu, l'ho già scritto, va fatto in due, e poi se m'attanfi 'r futon - te 'o dico - me se prende a male).
Il sintomo è una faccenda molto personale. Molti sintomi addirittura nemmeno esistono fino a quando non ci accorgiamo della loro esistenza. Una collega ha avuto "in cura" un tipo cui faceva male un ginocchio. Dopo tre sedute pare se ne sia uscito con "Sai, non ti avevo detto che soffrivo di insonnia, ecco: mi è passata!": era così abituato che ne aveva fatto la sua normalità. 
Conviviamo coi nostri piccoli dolori, con le nostre somatizzazioni, le integriamo, le facciamo nostre e quasi ci affezioniamo. Solo quando ce ne liberiamo, se capita, se magari lo shiatsu le stana, ci accorgiamo che già da un po' avremmo potuto vivere più comodamente.

Sintomo in campana, lo shiatsu te stana... gajardo, ne farò il mio motto.


venerdì 4 marzo 2016

Shiatsu dove: in barca

Affinità e divergenze tra il trattamento casalingo e quello "On Board"

Lo shiatsu è raccoglimento, allineamento, equilibrio. La barca si muove.
Già da questo si capisce qual è la differenza principale. Ma andiamo per ordine.

Il futon è aperto a prua. La tuga è flushdeck e gli unici ingombri sono il passauomo della cala vele e l'osteriggio del bagno. Ah, un attimo, ho sbagliato blog... riformulo:
Il futon è aperto a prua: la mia barca è piatta, sopra, e ben si presta, a parte un paio di aperture finestrate che, però, vengono agevolmente disinnescate con un paio di materassini in più. Il trattamento è ovviamente all'aperto. Ciò significa un sacco di sole - per questo sistemo un telo ombreggiante che protegge dalle ustioni operatore e ricevente - ma anche, a volte, di vento: quando ce n'è troppo, e ultimamente son stato in posti in cui il vento non te la manda a dire, bisogna rimandare. Negli altri casi utilizzo pesi da sub per trattenere gli angoli del futon, che altrimenti si cappotterebbe portandomi via la persona da sotto le mani.
La barca è questa, e quest'anno la zona di navigazione sarà più o meno quella dello scorso, ovvero l'Egeo tra Golfo di Atene, Cicladi, Creta e Dodecaneso.

Dal punto di vista logistico siamo a posto, tutto il resto non dipende dall'imbarcazione specifica o dal clima del giorno, ma dall'essere propriamente su un oggetto galleggiante che, per sua natura, non sta fermo.
All'àncora questo è evidente: anche semplicemente nel camminare bisogna tenere le ginocchia un po' più basse del solito, e molto più molleggiate. Perfino in porto, ben assicurati alla banchina, un minimo, impercetibile ondeggiare c'è sempre. E se la persona comune non se ne accorge, l'operatore shiatsu durante il trattamento sì. 
Il suo equilibrio, il suo allineamente accuratamente ricercato negli anni per portare esattamente il peso giusto e non un grammo di più ad ogni pressione, vanno immediatamente in crisi non appena comincia il trattemento. E allora?
Secondo un mio amico, forse meno velista di me, ma certamente più esperto nello shiatsu, perdendo i normali riferimenti di equilibrio si raggiunge in realtà l'optimum energetico, a patto di far partire tutto dall'interno. Suona astruso ma ha un senso. 
Dal punto di vista pratico io, che non sono un insegnante come Paolo, mi limito ad abbassare il baricentro, ad assecondare la barca - be like water - e a cercare l'armonia non solo con il ricevente ma anche con la natura che circonda entrambi. 
E anche questo, non c'è dubbio, ha un senso.